Osservazioni preliminari sugli effetti del CrossFit® e la “flessibilità psicologica”

Si sono conclusi con il workout 23.3 gli “Open” dei CrossFit® Games, quello che personalmente ho definito il “Natale” per chi pratica questo sport: l’aria che si respira nei preparativi oserei definirla magica e questa magia potete osservarla negli occhi di chi entra nel box.

Sono 5 mesi esatti che vivo questo sport e mai avrei pensato potesse coinvolgermi ed appassionarmi.

Da qui, quasi su una scia filosofica pre Socratica, ho cercato di dare una risposta alla domanda:

perchè fare CrossFit®?

Nella mia ipotesi iniziale, suppongo che il CrossFit® abbia un grande impatto su quello che in psicologia è chiamata “flessibilità psicologica”: ossia quella capacità di stare in contatto col momento presente, in maniera consapevole, anche quando il contesto non è proprio dei favorevoli (e dopo l’ennesimo tentativo di bilanciere sollevato male o muscle up non riuscito, l’ambiente è esperito come ostile, credetemi). 

Restare in contatto significa non solo riconoscere quelle emozioni piacevoli (“Wow, ho sollevato 70 kg: sono felice!”) ma anche quelle meno gradite (“Due ore appeso alla sbarra e non riesco a tirarmi su con un pull-up: che fastidio!”).

Allora è solo attività fisica o nel box si allena anche la mia mente?

L’esperimento per Dummies at the Box

Per farla breve, vi illustro come ho strutturato questa sorta di “mini-esperimento for dummies” (la Polly Pocket delle indagini esplorative per non urtare la sensibilità della comunità scientifica). Come strumenti ho utilizzato la “Mindfulness Attention Awareness Scale (MAAS)”, test autosomministrato sia il giorno del primo workout e successivamente a distanza di 3 settimane con l’ultimo WOD.

Questo test permette di valutare la capacità di stare “qui ed ora” la quale è predittiva di costrutti come il benessere mentale. I risultati in uscita hanno mostrato un lieve incremento (ma parlare di correlazione con così pochi dati sarebbe un volo pindarico notevole). 

Le osservazioni effettuate prendono in considerazione queste variabili all’interno dei diversi workout:

  • Risposta fisiologica (attivazione arousal);
  • Risposta comportamentale e cognitiva (percezione dell’ambiente, fusione con pensieri, possibili strategie di evitamento);
  • Fattori ambientali (linguaggio adottato dai giudici; complessità dei movimenti previsti dal workout; ruolo della community).

Provando a fare il riassuntone, ho potuto osservare che:

  • l’attivazione fisiologica era alta in relazione all’ambiente percepito come “non confident”; 
  • ai “No Rep” assegnati dal giudice era alta la fusione con pensieri negativi (ricorrente “non ce la posso fare” );
  • linguaggio del giudice insieme alla complessità dei movimenti incrementavano sia la fusione cognitiva che l’attivazione fisiologica: di riflesso un’alta volontà di evitare questa situazione frustrante.

Cosa ha permesso di rendere tutti questi elementi “ostili” in qualcosa di positivo?

Credo che qui sia entrata in gioco la flessibilità psicologica e dirigere l’attenzione anche su quei contenuti negativi. 

Riuscire a “surfare” in mezzo alle onde di una competizione (seppure non agonistica) in cui ci si mette in gioco pone un grosso accento sul Sè. Perchè in quel momento ci sei Tu, consapevole, delle tue risorse e dei tuoi limiti. E ulteriore fattore determinante, che mette in relazione il Sè con l’Altro, è la community che va dagli atleti ai coach.

Anche se ricevi “No Rep” di fila, anche se il tuo livello non è “Advanced”, hai una comunità che ti valida in ciò che fai anche con piccoli gesti. Scambiarsi un colpetto con i pugni e dirsi “ben fatto”; scrivere il proprio punteggio sulla lavagna o registrare il proprio risultato sulla leaderboard.

Sentirsi parte di qualcosa in cui anche se in un esercizio non stai dando il tuo classico 100%, in quel giorno stai dando sempre il meglio di te e ne ricevi feedback (da qui potrei riprendere il modello di Bandura sull’autoefficacia).

Conclusioni

Questo 23.3 mi lascia però l’amaro in bocca e non perchè avessi chissà quali pretese. Però credo che in questa emozione ci sia una sorta di “nudge” motivazionale.

Come detto nella premessa, sono solo 5 mesi che pratico questo sport.

Dico che lascia quel sapore dolce amaro perchè vuole lasciare uno spiraglio aperto. Mette davanti al fatto compiuto che c’è sempre qualche aspetto da migliorare in cui puoi spingere, sia che tu sia un neofita o un competitor.

Credo che questo sport racchiuda un po’ l’essenza dell’apprendimento: non si smette mai d’imparare. Non arrivi mai ad una meta. È un lungo viaggio e dipende quanta strada vuoi percorrere e quanti luoghi vuoi vedere.

Riprendo, a chiusura, una frase a me molto cara di F. B. Skinner: “Un fallimento potrebbe semplicemente essere il meglio che uno possa fare in certe circostanze. Il vero sbaglio è smettere di provare”.

Perchè faccio CrossFit®? Perchè sono libera di provare e sbagliare.

COMPLIMENTI A TUTTI PER QUESTO OPEN 2023


scritto da: Psicologa Dr.ssa Vanessa Coccimiglio

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Conosce il CrossFit® per caso, in mezzo al deserto, se ne innamora.
Le piacciono i legami che nascono nei box, luogo in cui passa tanto tempo.
Porta sempre con sé i suoi dumbbell personali di 8 e 6 anni.
Strizzacervelli.
Curiosa.
Ama osservare e condividere le interazioni tra mente e CrossFit®. Come lo fa? Grazie a Dummies at the Box

Psicologa - Esperta in valutazione Stress Lavoro-Correlato

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